La Tomba di Taino

 Sotto il paese di Comasira sulla sponda destra del torrente Pioverna, si apre una spaccatura della montagna. Ha una forma irregolare,un tronco di cono alto una trentina di metri e largo alla base circa venti. Dall’alto cade un rigagnolo d’acqua che arriva dalla val di Brein e che prima di giungere al suolo si rompe in enormi goccioloni. Il paesaggio è da favola, enormi tronchi di alberi caduti sono coperti da un fitto, lungo e morbido muschio ci sono cespugli con foglie larghe come piccoli tavolini e la vegetazione ricopre ogni cosa. L’imbocco della grotta è ostruita da ammassi di legni caduti dall’alto e trasportati dall’acqua durante i furiosi temporali di montagna e obbligano il visitatore ad una comunque facile arrampicata. Fino ad una quindicina di anni fa c’erano più possibilità per raggiungere la Tomba di Taino, poi i sentieri sono franati e sono stati portati via dalla violenza del torrente, ora si può raggiungere solo facendo un guado nei periodi di forte siccità oppure calandosi nel bosco legandosi con corde agli alberi. Entrambe le soluzioni, (provate nel 2007 da un gruppo di residenti) per cercare di riattivare un percorso, sono da considerarsi comunque non prive di pericoli. La località prende il nome da una leggenda, si narra infatti che un antico Signore di Comasira, di nome Taino appunto, venne sepolto dai suoi sudditi sul fondo dell’antro con tutti i suoi tesori e poi venne coperto con una enorme pietra circolare e il torrente fu deviato per coprire il tutto.

Riportiamo il percorso Vendrogno-Comasira- Tomba di Taino descritto nella (Guida illustrata della Valsassina) di Fermo Magni del 1904 Alla chiesuola di S. Antonio posta all’estremità orientale del villaggio una mulattiera scende in un quarto d’ora a Comasira, tranquilla frazione di Vendrogno, tutta circondata da rigogliosi vigneti. Continuando un quarto d’ora verso Taceno per la mulattiera al di là della Valle dei Molini, troviamo sulla destra una stalla presso la quale un sentiero va a percorrere l’orlo del profondo burrone. Scenderemo ben presto ad una bella distesa di prati: in fondo all’ultimo a destra scendendo dal muricciolo che lo sostiene imboccheremo un sentieruzzo che attraverso i boschi ci porta alle acque della Pioverna spumeggianti nell’orrida gola. Teniamo sempre a destra, valichiamo sui sassi la Valle dei Molini presso la sua foce e poco al di là vedremo aprirsi nei tufi una meravigliosa marmitta delle cascate a guisa di un immenso bottiglione spaccato sul davanti, alto una trentina di metri, nel quale si precipitano le acque di un torrentello che si disperdono in mille spruzzi. La marmitta aggiunge orrore al luogo già tanto imponentemente orrido; le pareti sono rivestite di muschi e di fegatelle. Continuando a destra pel sentiero che sale costeggiando gli orridi precipizi fra i quali scorre la Pioverna, si può in mezz’ora risalire per altra via a Comasira Ma l’origine del nome di questa forra potrebbe derivare anche da questa storia narrata sempre da Fermo Magni.

Volle il caso che mi trovassi un dì con un vecchio del luogo il quale mi raccontò la novella che qui Vi trascrivo Superata la lunga salita che da Bellano mette a Vendrogno per la stradicciola ora stretta tra i muriccioli che chiudono i vigneti, ora libera dominante vasti orizzonti, Taino Cameroni era giunto alla Carbonera. Sedette sul margine della strada per riprendere lena; la vicinanza del suo villaggio lo riempiva di esitazione, di ansia. Si sentiva venir su il fiato grosso che gli strideva nella gola, e il cuore martellava, martellava. Era pur lunga e faticosa quella salita! Il sole già da un pezzo si era nascosto dietro l’elegante vetta del Monte Crocione che ora appariva tutta nera ravvolta nella nebbia sottile che saliva su dal lago a velare le pendici e le sue grandi fasce di dolomia che formavano quasi lo zoccolo della vetta erbosa ed ardita. Il cielo tinto d’un bel ranciato che andava sfumando via via fino a tramutarsi nel più profondo azzurro offriva la scena di uno splendido tramonto. Lì presso, un castano basso e largo protendeva i rami nudi, stecchiti che si disegnavano netti sullo sfondo del cielo. E tutto intorno era silenzio e quiete. Quanto diversi erano i tramonti che aveva contemplati nella California, seduto sotto gli alberi stempiati, di fronte all’immensità del Pacifico, quando il muggito delle mandre chiuse nelle palizzate echeggiava per le valli solitarie ed il nitrito dei cavalli si perdeva sull’immensità delle acque. Ed ora lo avrebbe riveduto il suo villaggio, dopo la travagliosa navigazione, dopo si lunghi anni di lontananza. Rivedeva la sua casetta annerita dalla fuliggine e il portichetto sotto il quale aveva passato tanti meriggi, e la scala sulla quale sedeva novellando con la Ghita, che sporgeva il capo dalla finestra della casa vicina. Aveva con sé un bel gruzzolo e la Ghita sarebbe stata sua ed avrebbe acquistata la Piazza del Nasso, la più bella vigna dei dintorni. La zia si sarebbe presa insieme, quella buona donnetta. Le gioie che lo aspettavano dopo la vita avventurosa di quegli anni d’esilio, gli riempivano il cuore di ansia, di trepidazione, gli davano un dolce stringimento che gli faceva venir su il fiato grosso, e il cuore martellava, martellava. Puntellò la mano sull’erba ingiallita dalle nevi appena scomparse, si drizzò in piedi e gli tornò il dubbio che gli era nato a Bellano appena sbarcato. Perché la Ghita non era discesa a riceverlo? Eh! Le male lingue! In paese si sarebbe ciarlato, e la Ghita non era ragazza da far parlare la gente. Era una giovine seria la Ghita. Così la sua mente ingenua tentava di spiegare quello che gli sembrava inesplicabile; ma conviene dire che non fosse appieno soddisfatto, poiché il dubbio gli si conficcava sempre più addentro e lo straziava. Allungò il passo, quando giunse alla Val dei Gatti levò gli occhi alle prime case di Vendrogno e sentendoseli inumiditi vi passò sopra il dorso della mano. Nell’osteria del Paciott c’era gente; ne usciva un chiacchierio ininterrotto. Fanno la partita. Si arrestò dubbioso di entrarvi, fece tre passi, tornò indietro, entrò risolutamente. Voleva vedere la faccia subito di qualche suo compaesano. Oh! Guarda, guarda! Tutti si volsero a lui. Uno dei giuocatori rimase col braccio alzato, col pugno stretto per battere un gran colpo sul re di cuori. Dopo le esclamazioni di sorpresa, di congratulazione, i quattro ripresero il loro tresette. Quel gran pugno piombò giù sul re di cuori e fece traballare i bicchieri e calare il quattro dell’avversario, poi il tre del compagno. Egli inarcò le ciglia, strinse le labbra in atto di grande soddisfazione, aspettò che il compagno gettasse sulla tavola un’altra carta e vistala schierò ad una ad una sul tappeto le sei che teneva ancora in mano enumerandole con aria canzonatoria: Frisa, bindell, lin, stopa, bombaas Quest chi l’è quell che me piaas. Il giovinotto bevette il bicchiere di vino che la Rosina gli aveva recato, pagò e stava già sulla porta per uscire, quando udì la Rosa che, volta ad un ometto grigio che a cavalcioni d’una scranna colle mani appoggiate alla spalliera ed il mento su queste stava tutto intento ad osservare i giuocatori, diceva : -E’ quello della Ghita costui? Segno affermativo dell’ometto che non distolse nemmeno gli occhi dal tavolo. La Rosina fece una brutta smorfia e diede in una risatina acuta, frizzante. La mattina tutti a Comasira sapevano che Taino era tornato, e le comari se lo dicevano da una stalla all’altra. Le più vecchie bisbigliavano delle parole di compianto e le più giovani ridevano e qualcuna provava in fondo in fondo un vivo senso di compiacenza; non poteva toccare a lei quel bel giovinotto ora che la Ghita……? E a ogni passo che udiva nella strada allungava il capo fuor della porta per vedere se era lui. Il giovinotto non aveva chiuso occhio quella notte; quel ridere della Rosina gli aveva accresciuto i sospetti. Arrivato poi a casa l’aveva trovata chiusa; la zia era nella stalla a filare colle comari, e quando chiamata venne col lumicino a olio, non l’aveva quasi salutato, che lo trasse dentro con atto misterioso e cominciò a fargli un gran sermone, che alla Ghita non ci pensasse più, perché era una ragazza di poco cervello; e che aveva fatto questo e quest’altro e che aveva detto che lei era una vipera e lui un povero girovago, un pitocco; e che del resto non era necessario prendere moglie, non aveva preso marito nemmeno lei ed era pure arrivata a diventare vecchia. E quando il giovine le chiese che ne fosse comunque della Ghita, gli rispose che pensasse a ringraziare il Signore del bene che gli aveva voluto, che l’aveva sempre assistito e che gli aveva dato fortuna. Che importava a lui della Ghita? Ah! Che importava a lui della Ghita? Dopo aver per lei abbandonato la patria, dopo aver passato per lei sei anni tra stenti e pericoli continui, dopo tante promesse, dopo tante speranze, che importava a lui della Ghita? Vedendo di non poterle cavare di più accusò una grande stanchezza. Era pronto il letto?-Sì era pronto; bello e pulito come un gherofano. E volle accompagnarlo nella stanza e non ristava dal ripetergli ad ogni gradino della scala: Ringrazia il Signore. E non lo abbandonò finchè non l’ebbe visto in letto e non l’ebbe visto fare il segno della croce e bisbigliare qualche cosa che credette una preghiera. Poi gli assicurò la coperta ai lati ed uscì ripetendogli:_ Ringrazia il Signore. Perbacco voleva bene lei al suo Taino. Ma il suo Taino rimase nel letto con gli occhi sbarrati nell’oscurità ed incominciò a voltarsi e rivoltarsi, e intanto udiva la zia che così sola soletta nella stanza vicina battendo i denti pel freddo borbottava il rosario. Udì il fruscio del saccone di foglie sul quale dormiva, poi qualche giaculatoria poi un russare profondo, eguale, quieto. E lui aveva la fronte che ardeva, il capo gli turbinava, gli occhi vedevano nell’oscurità dei pulviscoli luminosi rossi, gialli, azzurri: Balzò fuori dal letto, aperse la finestruola e si sentì sollevato alla frescura della brezza notturna che veniva a battergli sul volto. Un arco di luna si era levato dietro il Sasso Mattolino ed andava mano mano rischiarando i vigneti, i grandi castani del piano di Fontanei sparsi qua e là, ad uno a due coi loro tronchi giganteschi, gibbosi. Di là, sull’altro fianco della valle, un biancore diffuso prodotto dalla neve, ma nulla di distinto. Più in là l’enorme mole della Grigna distesa, quasi sdegnosamente, tutta bianca delle sue nevi e delle sue dolòmie. Un rombo cupo, incessante, confuso, la voce della Pioverna che appena, nel silenzio della notte, arrivava al suo orecchio; lì fuori, le acque del rigagnolo, ciaramellavano come pettegole. Riandava colla mente tutti i ricordi della fanciullezza, quando col babbo, buon’anima scendeva giù dalla vigna e si nascondeva fra i tralci delle viti e guardava fuori sotto i pampini e chiamava il papà e si faceva cercare; poi improvvisamente balzava fuori e con un urlo faceva spaventare la mamma che andava cogliendo i fagioli. Poi quei cari erano scomparsi dalla vita e vi era invece entrata la Ghita un giorno che si erano trovati alle stalle di Pianca. Poi d’inverno nella stalla del Fringuello lei filava e gli serbava sempre un posticino sulla panca dove egli sedeva a fare la fumatina; e gli tornavano in mente le scappatelle notturne al chiarore delle stelle. Poi d’accordo s’era deciso che egli andasse in America per avere sicura, al ritorno una vita più agiata. E gli passavano innanzi in rassegna tutti i castelli in aria, tutti i sacrifici che aveva sopportati di buon animo in quei sei lunghi anni di esilio. Ed ora non doveva pensare più a lei? Perché? Che faceva essa? Pensava, pensava, finchè le immagini gli si affievolirono a poco a poco e rimase inerte con gli occhi fissi alla luna, con un gran peso sul cuore, con un nodo alla gola che non voleva andare giù. Da quanto tempo era in quella postura? Non l’avrebbe saputo dire; si riscosse all’abbaiare di un cagnolino. Poco dopo si udì una pedata; gente che si reca alle stalle; si ricacciò nel letto, si rivoltò parecchie volte finchè un velo di sonno venne a chiudergli gli occhi ### -Su, su, Taino, non senti che suona la messa a S. Lorenzo? Era la zia la quale senz’altro, visto che egli indugiava aveva afferrato le coltri e le trasse fin giù in fondo al letto. Vergogna! Vergogna, non saresti tanto pigro se si trattasse di andare sul Muggio a caccia. – Taino mandò un grugnito, scese dal letto, pallido, cogli occhi gonfi, si vestì di malavoglia, sì lasciò spingere giù dalla scaletta e così stanco, si avviò colla zia, attraverso il paese per l’erta stradicciola che conduce alla chiesa. Non riusciva ad afferrare le parole che udiva bisbigliare dai pochi che incontrava in quell’ora mattutina, ma udiva qualche risata repressa, vedeva certi atteggiamenti di scherno, di compatimento…………E la zia continuava a sussurargli tanti consigli che egli non udiva. Raggiunsero un bel vecchio dall’aspetto patriarcale, dalla barba bianca, maestosa. -Oh! Guarda! E come va Taino? -Benone, benone, rispose la Nena, è arrivato ieri sera e andiamo su alla messa. Intavolò discorso col vecchio, raccontandogli tutti i prodigi che Taino aveva fatto e la fortuna che aveva portato dall’America e tante sue buone qualità. E Taino li seguiva muto, come un bambino riottoso. Ma quando il vecchio venne a dire che, se le cose erano così si sarebbe pentita anche la Ghita di aver sposato quello scempio di Emilio, un asino di quella forza, si sentì scorrere dei brividi per la schiena, gli scese un sudore freddo a rigargli la fronte, udì un ronzio negli orecchi e sedette sul muricciolo. Vedete Fazio, è stanco, povero figliuolo, dopo un viaggio così lungo. ### Fazio, i capelli candidi al par della barba incorniciavano una fronte larga, serena. Tutto insieme spirava una cert’aria di misticismo che lo rendeva venerabile agli occhi dei suoi compaesani. Attendeva al lavoro dei suoi campi sui quali aveva visto maturare la segale di settant’ anni, ma in paese e nei dintorni godeva grande fama, perché egli solo sapeva guarire tutte le malattie dell’anima e del corpo. A lui dunque s’era rivolta la Nena, per trovare modo di guarire quel suo povero Taino che sembrava impazzisse; e si faceva sempre più cupo e taciturno. Essa venne dunque a consultare l’oracolo. Il buon vecchione se ne stava in atto di profonda meditazione seduto accanto al fuoco e colle molle andava rovistando nelle ceneri con grande cura, quasi vi cercasse la pietra filosofale. Udì il caso del povero Taino senza scomporsi e quando la Nena, racconta racconta, ebbe pur finito, si alzò in piedi, la trasse davanti ad una immagine della Madonna, dove su un altarino ardeva un lampadino ad olio e inginocchiatosi pregò lungamente. La Nena s’era pur essa inginocchiata e pregava, pregava a mani giunte muovendo le labbra e strascicando le ultime sillabe che le uscivano in un lieve fischio. Finalmente l’oracolo si fece sentire: -E’ un affare serio, ma se avrete fede………se avrete fede tutto si può riparare. Voi dunque vi recherete alla Madonna di Lezzeno, raccoglierete presso la chiesuola del miracolo tre sassolini, li laverete nell’acqua della fontana miracolosa, poi ve li porterete a casa, li farete bollire per tre ore in un laveggio d’acqua e farete bere l’acqua in tre giorni al vostro Taino. Bisogna dire che la Nena avesse una gran fede, poiché in capo ai tre giorni il giovinotto era guarito; anzi, essa che se ne stava indispettita perché tardava a rincasare, l’aveva trovato su alle stalle di Pianca che scendeva da Vendrogno barcollante, ubriaco fradicio e l’aveva spinto a casa borbottando, strillando, e l’aveva messo a letto e lo rimproverava ancora che quello russava come un bue. Diavolo! Non eran figure da fare il suo Taino quelle; arrivare a casa conciato come un porco e addormentarsi così come una bestia senza nemmeno aver recitato un’ Ave Maria. Il fatto era che Taino dopo essere stato pensoso, cupo, tanto tempo, sempre tormentato dalla passione che lo rodeva, s’era venuto a sedere nell’osteria del Paciott ove aveva trovati alcuni dei suoi compagni d’infanzia, avevan bevuto e bevuto, insieme, e il vino quando s’ ha un dispiacere, si sa, fa male subito, specialmente quando si cerca a lui l’ oblio dei mali. ### Intanto alla primavera era succeduto l’estate. Sui campi si disegnavano le lunghe strisce ondeggianti della segale che rigavano tutta la montagna. Le mandre erano salite ai verdi pascoli di Tedoldo, di Busè, di Camaggiore, di Chiaro ed andavano brucando l’erba tra i cespugli odorosi di ginepro, di ontano, tra le ginestre e i rododendri. I fiori fragranti svolgevano le variopinte corolle da ogni ceppo, da ogni angolo di rupe e trionfavano sul ciglione delle rocce e nei prati di smeraldo. I lunghi sermoni, le carezze della Nena non valsero a distorre Taino dal bere. Essa lo esortava, lo sbaciucchiava, trovava mille argomenti per non lasciarlo uscire la sera, ma il giovinotto aveva sempre il modo di svignarsela e a poco a poco incominciò a stare fuori la notte e quando ritornava aveva gli occhi imbambolati, rossi, non era più il Taino di una volta. Le avevano anche riferito di certe relazioni, di certi convegni……… In paese ne parlavano tutti, e secondo gli umori si derideva o si compassionava quel povero giovine e si facevano cattivi pronostici. Il dieci di Agosto, giorno di S. Lorenzo, patrono delle parrocchia, si faceva gran festa. Le ragazze e le spose scese dai pascoli per l’occasione si pavoneggiavano nel loro costume paesano, e spiccavano sul verde delle campagne la candide maniche della camicia odoranti di bucato; portavano grandi pendenti alle orecchie, e lunghe collane che scendevano sul velluto nero del corpetto tutto ricamato di fiorellini dalle languide tinte. Le vesti di tela stampata finamente pieghettate finivano in piccole orlature di velluto. Dietro la chiesa, sul prato, una squadra di giovani sparava i mortai a salve, le campane suonavano a festa. In mezzo alla gioia generale Taino s’era ficcato in un’osteriuccia di Inesio ed aveva cominciato dal bere un bicchierino di acquavite, poi un altro ed un altro. Poi si alzò barcollante e uscì e si avviò verso la chiesa. Ma la messa era finita e i devoti si disperdavano a piccoli gruppi pei viottoli del paese. Le montanine strette le une alle altre ciarlavano tutte insieme ridendo con grande chiasso, canzonandosi, adocchiando furtivamente questo o quel giovanotto. Quando Taino giunse presso la chiesa si imbattè in una di queste chiassose comitive. Barcollava sconciamente benché facesse sforzi sovrumani per stare dritto. – Oh! Guarda, Ghita, mormorò una delle ragazze. -Uh! Il porco! Senti l’odore di acquavite. Taino udì, guardò; quelle diedero in una gran risata. Al giovanotto parve di sentire un gran colpo di mazza sul capo, un rombo gli suonò negli orecchi, gli occhi si offuscarono in una nebbia rossa, oscura. Tentò ancora un passo, ma il piede non volle alzarsi, inciampò, ruzzolò per terra come morto. ### Sotto il portico ingrommato di fuliggine, nella casetta posta all’estremità di Comasira non si udirono più i rantoli di Taino che rincasava ubriaco. Qualche rara volta vi eccheggiava un ritornello selvaggio che egli aveva imparato quando correva le libere praterie dell’America; ma solitamente vi regnava più perfetta quiete. La Nena brontolava il suo rosario e Taino correva le campagne raccogliendo fiori a cappellate, e fermandone un mazzolino ad ogni occhiello, ed allora si ringalluzziva tutto e si dava delle fragatine alle mani e si specchiava nelle acque. Talora passava le intere giornate sdraiato sui prati, sull’orlo d’un precipizio e scrutava coll’occhio fisso lontano, lontano, forse cercando le mandre selvagge della California, o i cervi dai corni ramosi. Una sera però non ritornò a casa; la Nena lo ricercò, ma era calata una notte tenebrosa. Il dì seguente tutto il paese era sossopra. L’avevano visto a Presallo, l’ avevano visto a Noghè e c’era chi affermava di averlo visto passare sul crepuscolo alle stalle di Piazzo. Le ricerche riuscirono vane. Ma la domenica mentre tutti erano raccolti in chiesa, era arrivato, su a San Lorenzo, il Tita, ansante, cogli occhi fuori dalle orbite a raccontare che mentre era sceso giù alla Pioverna per vedere di certe sue tagliole aveva trovato Taino freddo stecchito in fondo a un burrone. Alcuni volonterosi scesero al fiume col Tita. Il povero giovine giaceva lungo disteso in fondo al precipizio sotto la cascatella che gli pioveva addosso mille spruzzi d’acqua, tra i muschi e le fegatelle che tapezzano le pareti dell’orrido meraviglioso. Fu chiamato: LA TOMBA DI TAINO

Veramente una brutta fine quella del povero Taino Cameroni, ma sembra che questo racconto sia molto vicino alla realtà perchè a pochi metri da questo antro c’è  una insenatura conosciuta dagli abitanti del posto anche come il “pozzo dei Carott” e questo era il soprannome  della Famiglia Cameroni a Comasira

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